Articolo pubblicato sulla rivista Vivere lo yoga n° 77, ottobre-novembre 2017
Lo yoga viene spesso confuso con le tante posture, come se si identificasse con le loro forme, che si riconoscono quasi ovunque nei mass media in una visione incentrata soprattutto sul benessere dell’individuo. In questo caso sarebbe una interpretazione estremamente riduttiva di una disciplina che abbraccia una conoscenza esistenziale ad ampio respiro.
Parliamo delle origini
Per richiamare i riferimenti collaudati nel tempo, è necessario rivisitare l’antico testo gli Yoga Sūtra di Patañjali (YS) per capire meglio dove si situa l’āsana in un cammino più completo e una visione globale. È solo nel seguire il percorso e “attendere ai membri del metodo che, distrutta l’opacità, sorge il bagliore della comprensione [del come stanno le cose]” fino a raggiunge viveka, il discernimento discriminativo YS II.28.
Le otto membra (aṅga) sono: le astensioni (yama), le prescrizioni (niyama), la stasi-posture, (āsana), il controllo del respiro-prāṇa (prāṇāyāma),il capovolgimento-ritiro dei sensi (pratyāhāra), il trattenimento-concentrazione (dhāraṇā), la visione inintenzionata-la meditazione (dhyāna) e samādhi YS II 29.
Patañjali dedica più di 15 sūtra, su un totale di 195, in un testo in cui domina la parsimonia di ogni sillaba, per spiegare e sviscerare i primi due aṅga: yama e niyama. Con un enfasi del genere, è quindi fondamentale cogliere la loro importanza nel percorso. Āsana invece, la stasi stabile e confortevole (sthirasukha), viene menzionata in non più di due sūtra YS II.46-47, solo dopo le astensioni e prescrizioni.
Bisogna evidenziare come i gli yama e i niyama non vadano considerati un codice di condotta ma i primi passi di una trasformazione del rapporto con la vita: “da una visione frammentata, incentrata sull’io, che può arrogarsi il diritto di decidere cosa è giusto e cosa non lo è, a una concezione olistica, globale dell’esistenza. E’una trasformazione del contenuto della coscienza: da una piena di pensieri al vuoto.”
Le astensioni (yama) sono: non violenza (ahiṃsā), ricerca della verità (satya), non rubare (asteya), discepolato di Brahma (Brahmacharya) e non trattenere nulla per sé (aparigraha). Sono universali, a prescindere dal luogo e dal tempo, le nostre differenze culturali non cambiano la necessità di osservarli. Sono pertinenti sia per l’oriente sia per l’occidente.
Quando si è consapevoli della globalità della vita, dell’inter-relazione di tutto, naturalmente le proprie azioni hanno un’influenza diretta con tutto ciò che ci circonda. Ahiṃsā, il non nuocere, diventa un valore, un “profondo amore per la vita che ci conduce a non poter recare offesa nei confronti di ogni sua manifestazione e non fare del male a nessuno intenzionalmente. Ahimsa è un rapporto intelligente ed armonioso”. Questo primo yama è il fondamento di tutti gli altri. Questa prospettiva espande l’influenza del yama all’esterno di noi e verso gli altri.
Come si applica ahiṃsā durante la pratica di asāna? Bisogna sempre tenere insieme ed osservare tre dimensioni: la postura, la respirazione e l’intenzione mentale. È opportuno non proiettarsi in una forma prestabilita, come un condizionamento inconscio che vuole raggiungerla. Basti pensare a quanti praticanti si fanno del male fisicamente. Bisogna riprogrammare e ristrutturare l’intenzione mentre pratichiamo verso un atteggiamento di non violenza. Alla coscienza non bisogna chiedere ma solo accogliere le osservazioni, in modo da educare la mente.
Yama e niyama nelle fioriture del femminile
I percorsi del bocciolo-fiore-frutto-seme sono speciali nella vita di una donna e caratterizzati da delicatissimi cambiamenti somato-psichici che agiscono in modo globale sulla sua personalità. Sarà il suo atteggiamento mentale, nel seguire i yama e niyama, a determinare il modo in cui affronterà le transizioni.
La donna incinta vive nelle trasformazioni a 360 gradi. Iniziando dai cambiamenti psico-fisici del corpo e dalle sue emozioni nel rapporto con il partner e nel lavoro. Cercherà di concludere tutto quello che ha iniziato, in tempi sempre più stretti, per poi potersi dedicare alla sua maternità.
Questo effetto ‘sandwich’, a compressione, le costa tanta fatica. Ma non sempre riesce ad ascoltare i segnali che le arrivano dal suo corpo. Per esempio, il bisogno di maggior riposo soprattutto nel primo e terzo trimestre.
Quando il corpo le parla e non viene ascoltato, per farsi notare deve urlare con dei disagi più seri quando la gestante non segue il precetto ahiṃsā.
Ciò accade anche nelle donne in età fertile prima della purificazione mensile. Per facilitare apana, l’energia dell’eliminazione, si ha bisogno di rilassamento e un maggiore riposo che spesso non viene concesso, allora l’iperattività diventa una forma di violenza.
Anche nella pre-menopausa, i disagi sono ancora una volta dei segnali del corpo, che ha bisogno di rallentare, di purificarsi e seguire ahiṃsā per meglio affrontare le nuove sfide.
Satya–verità, significa non interpretare secondo una visione egocentrica. Satya riduce sempre più lo spazio che intercorre tra quello che pensiamo di essere e ciò che siamo veramente. I condizionamenti mentali facilmente aggiungono e distorcono gli eventi oltre i fatti puri e semplici.
Se la gestante comprende i suoi bisogni, sono quelli del bambino che porta dentro. Se lei li asseconda, sarà in sintonia con i bisogni del bambino. Ma questo richiede di essere in uno stato veritiero e di non usare i meccanismi di difesa dell’io, tra l’altro molto potenti, di negazione di quello che percepisce di sé.
Nella menopausa scattano tutti i timori dell’invecchiamento, di non essere più attraente, per cui bisogna tingere i capelli che segnano l’età. Oppure sempre più spesso ci si rivolge alla chirurgia plastica per ‘aggiustarsi’ secondo dei parametri totalmente arbitrari.
Asteya– non rubare, non riguarda soltanto cose materiali ma è riferito anche a concetti ed idee. Quando la gestante, ad esempio, è talmente piena di sé e dei suoi problemi (come può essere l’ambiguità nei confronti dell’accettazione della gravidanza, il dubbio, il conflitto, la non contentezza) da non vedere i bisogni del suo bambino, allora lei gli sta rubando spazio vitale a livello energetico e non vive la gravidanza secondo un rapporto di asteya.
Brahmacarya– Brahma è il nome dato alla realtà ultima nei Veda e nelle Upaniṣad; rappresenta l’inesauribile energia creativa che riempie l’intero universo. Così Brahma non è una delle tante divinità dell’Induismo ma è il nome dato al Principio primo che sostiene il creato. Quindi Brahmacarya è un modo di vivere nel quale siamo sempre consapevoli della Divinità, della Suprema Intelligenza che permea l’intero cosmo”(Thakar).
Un Brahmacarya è colui che percepisce l’urgenza di vivere nella consapevolezza dell’eterna presenza del divino e regola il proprio vivere in funzione di ciò, creando armonia con tutto ciò che lo circonda. Si comprende così chiaramente come Brahmaharya non rappresenti una rigida regola di condotta riguardante la sfera della sessualità ma è un vivere con moderazione che emerge naturalmente.
Tradotto in termini di maternità, questo yama è di fondamentale importanza, è la Suprema Intelligenza che ha dato vita al nostro bambino. Non potrebbe essere diversamente. Altrimenti, basterebbe la propria volontà per dare la scintilla alla vita? In quel caso, cosa dire di tutte quelle coppie che desiderano procreare senza riuscirvi?
Quando si assiste ad una nascita non si possono avere dei dubbi sull’accaduto, quel senso di stupore, di incredulità e di miracolo. Tutto ciò deve trasferirsi alla nostra stessa vita… deve impregnarsi di questa urgenza di vivere nella consapevolezza dell’eterna presenza del divino.
Aparigraha – non possessività. La possessività è esclusiva e produce l’attaccamento e la paura di perdere la cosa che si possiede; l’acquisizione per utilità porta invece ad usare le cose quando sono necessarie per una sana maniera di vivere. Si tratta di sradicare in noi l’idea del possesso, cosa estremamente difficile da realizzare poiché noi tutti sappiamo come l’ego sia animato dal desiderio di possedere. Nel suo libro Il Profeta, Gibran spiega in modo eccellente, come i figli non ci appartengano, ma siano come frecce di un arco che scoccano lontane.
Le prescrizioni (niyama) sono: pulizia (śauca), appagamento-contentezza (saṃtoṣa), ardore nella disciplina (tapas), lo studio delle scritture (svādhyāya), dedizione al dio (īśvarapraṇidhāna).
La saggezza dell’ultima fioritura del femminile, la menopausa, consiste proprio nell’aver già visto tutte le sfumature possibili dei meccanismi egoici. È la visione d’insieme che si ha quando si è focalizzati sull’urgenza primaria di vivere in contatto diretto con l’assoluto, e che può ridimensionare la prepotenza dell’ego. Non si può liberarsene completamente, ma come in una purificazione (śauca), si riconoscono e si può essere meno invischiati in quei meccanismi sottili, perché si sono vissuti nei vari ruoli che si hanno avuto nella vita: figlie, sorelle, madri, compagne, mogli. Valorizzando la contentezza (saṃtoṣa), in un approccio non comparativo e non competitivo, emerge la gratitudine per tutto quello che si ha avuto.
La ‘via’ viene poi tracciata con tapas, le austerità che bruciano le impurità-tensioni e svādhyāya, la consapevolezza della propria interiorità, che permette di ‘registrare’ l’interconnessione del tutto. Le esperienze gioiose sono l’altra faccia di quelle dolorose. Cogliendo la consapevolezza della globalità della vita, si espande cosí la coscienza e si trascende l’identificazione con i dolori egoici, fino all’abbandono (īśvarapraṇidhāna) al divino, che passa attraverso di noi.Come diceva Sri Swami Satchidananda, di LOTUS (Light of Truth Universal Shrine) contentezza, non attaccamento e abbandono sono un trio molto potente.